domenica 5 dicembre 2010

La Ragazza Carla di Elio Pagliarani, Martedì 7 dicembre, ore 18, al Metateatro di Roma


VERSINSCENA 2010

Anche quest’anno l’Atelier Meta-Teatro ripropone, dopo il successo delle prime edizioni (2008 e 2009), la rassegna “Versinscena”. “Versinscena 2010”, che si svolgerà dal 29 novembre al 7 dicembre con dieci appuntamenti di ‘poesia & teatro’, vedrà impegnati poeti, attori, musicisti e videomaker in una ‘virtuosa’ contaminazione multidisciplinare volta a snidare la ‘poesia’, a restituirle un senso ‘teatrale’, spettacolare anche, e al tempo stesso profondo, autentico: ma soprattutto darà la parola direttamente ai poeti, ciascuno dei quali a sua volta darà forma, struttura e voce alla propria serata, pensata come ‘monografia’, o anche ‘autoesposizione’. (Per lo più come ‘reading’ a tutto campo; in qualche caso come ‘lettura scenica’ di una singola opera – poema o raccolta – emblematica dell’intera produzione.)

Gli appuntamenti-spettacoli della rassegna, curata da Pippo Di Marca, avranno il seguente calendario:

29/11 ore 21 Luigi Ballerini “Cefalonia” (poema a due personaggi)

lettura scenica di Luigi Ballerini e Pippo Di Marca

30/11 ore 21 Angelo Lumelli cura e letture di Angelo Lumelli

1/12 ore 21 Carlo Bordini “I costruttori di vulcani” cura e letture di Carlo Bordini

2/12 ore 21 Cetta Petrollo cura e letture di Cetta Petrollo

3/12 ore 21 Nanni Balestrini cura e letture di Nanni Balestrini

4/12 ore 21 Marco Palladini “Il mondo percepito – poetry concert”

cura e lettura scenica di Marco Palladini, sax Claudio Mapelli

5/12 ore 21 Mario Lunetta cura e letture di Mario Lunetta

6/12 ore 21 Luca Archibugi cura di Luca Archibugi lettura scenica di Almerica Schiavo

e Veronica Elisa Zucchi

7/12 ore 18 Elio Pagliarani “La ragazza Carla” lettura scenica di Pippo Di Marca

ore 21 Lucio Piccolo “Teoria delle Ombre” cura e lettura scenica di Pino Censi

martedì 14 settembre 2010

martedì 31 agosto 2010

Da Favole 2010

Come mi piace raccontare

Come mi piace raccontare, raccontarmi dentro, raccontare passeggiando, raccontarti.
E mi piace, come mi piace!, vedere le cose da raccontare, quelle che ci sono innanzitutto, proprio, proprio qui, proprio ora, perché chissà se fra un minuto questa luce se ne sarà andata o sarà ancora proprio questa, se questo cammino ci sarà ancora e ancora quella persona e quella e quella e quell’altra e nel ricordo, perché chissà se fra un minuto il ricordo sarà proprio ancora così o sarà diverso, come raggelato dentro al corpo, ci sono ricordi che possono sbiadire come la stoffa di un vestito tenuto troppo al sole e se sbiadiscono, sbiadiscono, e ancora sbiadiscono, alla fine non sono più niente, quasi niente, e allora bisogna continuamente raccontarseli i ricordi.
E come mi piace raccontarsi il corpo che i profumi del corpo me li racconto, così evaporano di meno perché i profumi se ne vanno e se non li racconti poi non ci sono più e ti devi sforzare, li devi raccontare, per esempio il profumo che hanno le pieghe dei gomiti, gli incavi, quando sei giovane.
Come mi piace raccontare!!!
Lascia che io guardi ancora tutto, proprio per dirtelo per bene, proprio, proprio, perbene, perché i bambini e i giovani sono troppo occupati a guardarsi dentro, a crescere, impegnati, impegnatissimi nella crescita, e gli adulti nella lotta per rimanere in piedi, schivando non sai quante buche, chiodi arrugginiti, ortiche e rovi, bisce che pendono, vipere che mordono, perciò solo i vecchi si godono lo spettacolo di fuori e lo sanno raccontare. Chissà se poi, dopo, arriva anche il momento che non perdono più tempo a raccontarlo, gli basta solo ancora, e ancora, e ancora, vederlo.
Ad ogni modo adesso mi piace vederlo e dirtelo.
Che è tutta una favola, credimi, questa luce che si presenta e poi a poi a poco vira e si nasconde nella sera che certe volte ti coglie all’improvviso mentre ancora leggi e non ci hai proprio pensato ad accendere la luce e poi si dorme, che è bella la stanchezza, qualsiasi cosa tu abbia fatto di giorno, la stanchezza fa giustizia e scivoli proprio dentro al cuscino e il giorno dopo si ripresenta la luce e vira ancora nei suoi modi diversi , dipende dalla stagione, dai mesi, dal posto del mondo in cui ti trovi, ma si ripresenta, in certi posti, lo sai?, dopo qualche mese.
E incredibilmente quando ti svegli, ti scopri a respirare.
Tu sei respiro, anche se ancora non lo sai, perché ora sei tutta fame, non lo sai, non ci fai caso, che sei respiro. Respiro che ti accompagna lungo il lunghissimo giorno e che vira come la luce.
Ma al mattino si ripresenta sempre. E io te lo racconto!

lunedì 30 agosto 2010

Da Favole 2010

Mogli

Una volta, un po’ di tempo fa, non tanto tempo fa ma un po’ di tempo fa, il tempo che ci vuole a fare invecchiare una casa, iniziare a invecchiare una casa, quando i tubi cominciano a perdere e l’intonaco esterno a sgretolarsi, quando l’impianto elettrico non è più a norma e gli infissi non chiudono bene e il legno delle imposte si scheggia e il pavimento si allarga, cioè le fessure fra una mattonella e un’altra si allargano e in mezzo c’è uno scuro che non va via e le maniglie delle porte forse sono un po’ ossidate e la poltrona è completamente infossata e il divano smollato e il frigorifero cambiato tre o quattro volte e in quella casa sono già passate almeno tre famiglie e i figli sono diventati nonni e altri figli si affacciano forse più robusti e più lunghi e più allegri, tutto merito del latte artificiale dirà qualcuno, insomma una volta non antichissima ma abbastanza antica da scriverci una favola, una volta le badanti si chiamavano mogli.
Le mogli badavano a tutto. Innanzitutto cucivano e stiravano e lustravano le scarpe perché se uno usciva di casa con gli abiti spiegazzati e senza bottoni o con orli scuciti o federe pendenti voleva dire che in quella casa non c’era nessuno che badava a niente e dunque quella era una casa di poveracci davvero, poveracci di cure, di affetto, di sapienza e di lavoro, una casa di vagabondi e di disgraziate. Una casa senza moglie.
E le mogli badavano alla cucina. Ma non la cucina elaborata e raffinata o esotica o dietetica o salutistica. Le mogli badavano alla cucina per crescere i figli, per curare gli ammalati, per far mangiare i vecchi, quelli senza denti, senza udito, senza vista e senza appetito proprio come erano i vecchi di una volta che non si mettevano le dentiere né gli apparecchi acustici né si operavano di cataratta e non uscivano sulla sedia a rotelle e non avevano il fisiatra né le flebo dunque era un’acrobazia riuscire a farli mangiare, bere, andare di corpo, pisciare e quello era un lavoro delle badanti che si chiamavano, a quei tempi, mogli e con la loro cucina riuscivano a parare, a rinviare il più possibile l’arrivo del dottore che quando arrivava il più delle volte ammazzava. E le mogli conoscevano le monacelle, i rimedi delle monacelle e facevano bollire certe tisane, una per pisciare, una per andare di corpo, una per l’allegria, una per il sonno, una per il fegato, una per la febbre. E accuratamente le badanti- dette mogli- nascondevano al medico quello che combinavano in cucina perché la cucina era roba loro e là dentro potevano entrare solo altre mogli o future mogli o mogli in pensione, nessun uomo poteva mettere il naso.
E le mogli- badanti capivano quando era stato concepito un figlio o stava per nascere un figlio e quando stava per morire un vecchio. Non c’era bisogno del dottore, da certi segni incomprensibili ai più ma non a loro le mogli badanti capivano la vita, il suo inizio, la sua fine, le sue parentesi.
E le mogli facevano da architetto nelle case, le abbellivano, le decoravano, le intessevano, le mantenevano, le ricamavano e lavoravano a maglia. In ogni casa si sentiva il rumore del pedale, c’era sempre una poltrona vicino a una finestra, la luce giusta per il ricamo.
Le mogli – badanti una volta non venivano pagate, non avevano lo stipendio, né la liquidazione, né la pensione. Da vecchie se la dovevano cavare così, da sole, sperando che la più giovane moglie-badante si prendesse cura di loro come loro si erano curate della suocera, della mamma, della zia zitella. E poi speravano di non vivere a lungo, non troppo a lungo, perché è triste la vecchiaia quando non puoi più badare a qualcuno.

Da favole 2010

Mirta

A richiesta ora racconto la favola di Mirta ( conta, conta, dicevano alle vecchine, una volta di quelle là, le bambine, le ragazze grandi da marito, le spose, le donne incinte, le puerpere, le lavoranti di casa, le lavandaie le sguattere, conta , conta, canta canta, suona suona, dicono oggi in piazza quando c’è il moderno saltimbanco, il contastorie, cioè il tipo che viene pagato alle feste dell’Unità o alle sagre di paese o dai comitati turistici per cantare e far ballare la piazza, canta, canta) e dunque mi accomodo la penna, anzi il computer, e ti racconto anch’io qualcosa, che una volta ci si accomodava la gonna, si preparavano le mani o si accomodava la penna e l’inchiostro e la carta assorbente e ci si apparecchiava a contare.
Ecco ci sono già dentro, sto parlando di Mirta.
Perché Mirta sa di ramoscello, di verde d’autunno ma anche di inchiostro e di carta assorbente e di pennino e di cucina e di orto di ortaggi di caminetti e di pavimenti in cotto, di fazzolettoni sulla testa di ariose finestre che si spalancano su orti in discesa uliveti senza confine vitigni bassi cantine oscure sentieri punteggiati da muretti di coccio segnati da qualche botte e lontano, sai, anche lo spaventapasseri.
C’é aria intorno. Molta aria. Aria aperta, dove si respirano i fuochi delle conserve d’agosto, degli agnelli di Pasqua, dei carciofi nuovi, la bollitura delle marmellate.
Ma Mirta è anche Mirtella e Mirtella percorre i boschi del passato, scava le buche della memoria, le sopravvivenze, qui un coccio, lì una pietra, più giù una colonnina, scava in linea retta ma talvolta fa dei giri eleganti intorno alle cose perché non scordarti che è una ninfa e si chiama Mirtella.
Sicché il bosco la chiama ed è un bosco gravido di calore silenzioso e pulito con lisci tronchi e profonde radici che devi stare attenta, nelle radici ci caschi, e c’è nel bosco il buco del silenzio che gravita fermo come il gabbiano quando vola con le ali immobili invece è il bosco che sta gravido, immobile è un bosco sacro lo percorre Mirtella.
Dici che è una biblioteca?
Che il bosco sono le colonne di legno dove immobili stanno i libri dai dorsi dorati in bell’ordine più su, più su ,più su, religione storia filosofia medicina su, fino ai finestroni sempre chiusi, giù, ancora più lontano, nel magazzino con le cancellate, chiavistelli ovunque, attenta a non inciampare nel sapere.
Ma no, che Mirty non inciampa perché lei è anche Mirty e si dà da fare intorno a un libro come intorno ad un ortaggio e lo sorveglia, lo coltiva, perché, sai, i libri sono delicati, delicati da leggere, delicati da mangiare.
Provati ad aprire un libro di quelli del bosco e avrai paura.
Dall’emozione, specialmente se hai tredici anni, ti si incollerà l’inchiostro dentro, in un posto che alcuni chiamano anima, ma questo lo scopri dopo, intanto che ti muovi nel bosco, e anche sulle dita, allora il libro si chiama manoscritto ,ed è un fungo nascosto.
Un giorno ti prendo per mano e ti ci porto, sì che ti ci porto, in una biblioteca.
Ma devi stare in silenzio, come in chiesa, così vedrai il bosco.
Mirtella, invece, ti ci porto prima.

domenica 29 agosto 2010

Da Favole 2010

Pentoloni

Una volta c’erano i pentoloni. Pentole talmente grandi che nemmeno te lo immagini quanto erano grandi che quando le trovavi in un libro di favole non sembrava una favola ma una pentola vera perché ogni giorno a tavola l’acqua bolliva in una pentola così e passava un ‘ora prima che l’acqua bollisse e più la guardavi più non bolliva mai dentro l’alluminio tirato a lucido la superficie appena increspata la mamma che diceva se la guardi non bolle mai.
E in questa pentola si buttavano dentro certi spaghettoni lunghi e duri che bisognava tagliare a metà che si compravano in certi negozi che li tenevano in certi cassetti di legno aperti inclinati e c’era in quei negozi odore di spaghetti di citrato e di cassetti.
E dopo un po’ con la punta di una forchetta si tirava su uno spaghetto lungo e lucente e si assaggiava ma era sempre duro e bisognava aspettare ancora sicché si assaggiava di nuovo e di nuovo finché non assaggiavi più e lo spaghetto scuoceva se per esempio ci si metteva a parlare e si scherzava e bisognava essere in due ad alzare il pentolone a scolare la pasta a reggere lo scolapasta a farla saltare e l’insalatiera era bianca pesante enorme con lo strofinaccio intorno a portarla a tavola.
Ma non ricordo, non ricordo bene del sugo. Perché più spesso era burro certi tocchi di burro decisamente giallo prima che ci dicessero che era meglio no niente burro e sul burro il formaggio grattato un formaggio invecchiato e il pepe nero che faceva allegria preso dalla boccetta e non come si vede ora nelle pubblicità macinato in certi affari finto antichi.
Perché una volta il macinino era solo per il caffè e ci volevano ore prima di macinarlo con pazienza e si guardava attentamente la mamma che era serena e concentrata mentre lo faceva come quando stirava o quando avvolgeva gli involtini o quando passava il riso le lenticchie sul ripiano del tavolo.
E il macinino? Il macinino è lì, in alto, aspetta che te lo prendo.

Da Favole 2010

Maria Concetta

Il mio nome non lo porterà nessuno in casa perché è come una favola stantia e più nessuno vuole queste favole perché tutti vogliono essere nati oggi e non ieri o l’altro ieri o nell’altro secolo e poi questo è un nome che viene fuori da due, tre secoli fa.
E questo nome inoltre sa proprio di Millenovecentocinquanta che Maria lo mettevano proprio a tutte le bambine e Concetta veniva dritto dritto da una nonna imponente che si era fatta dieci figli e cucinava per lo più pasta e fagioli.
Però questo nome che viene dritto da una favola di paese con poca acqua e grandi mastelli d’alluminio e vasche di marmittone grigio e nero, questo nome che viene dai bucati e dalle regge, questo nome può camuffarsi e ti spiego come.
Intanto potrebbe essere solo Concetta e questo lo direbbe un uomo che ti stima e ti ama per cui apre parlando la o di Concetta e tu hai la fermezza di una statua nella sua voce, la sicurezza di una venere ma di quelle che tengono strette le lancette del mondo.

Poi potrebbe ridursi a Concettina e questo te lo può dire un vecchio che si ricorderà delle sue Concettine , quelle conosciute quando era giovane e allora di Concettine ce n’erano tante, tantissime.
Infine continuando potrebbe stringersi in Tina e questo te lo dicono le amiche che hanno fretta o le colleghe o quelle che incrocerai per sbaglio a qualche corso , in qualche percorso inutile dove puoi essere spinta dal vento perché ci sono delle ventate che spingono in certi posti le persone e i loro nomi.

Ma se la mamma ti chiama Cetta con ghiribizzo nordico dettato dall’amica bolognese tale poi rimani : due sillabe puntate e puntute ma con la a finale che non si schioda. No, non si schioda.

E alcuni poi lo trasformano in Cetty , fanno finta di non capire, vogliono accattivarsi il tuo nome antico, il poeta ci ride su e diventa Concezion sicuramente sposata a don Ramon.
Che se poi arrivi in America puoi prendere in prestito Connie dal Padrino e sentirti internazionale.
Avresti insomma da scegliere se nel duemilaetrenta - duemilaquaranta ti dovesse nascere un bambino e il nome per avventura fosse ritornato contemporaneo e anzi fosse proprio una figata chiamarsi Maria Concetta- Concetta- Concettina- Tina – Cetta – Connie e Concezion e tu fossi diventata una ragazza molto, molto alla moda.

lunedì 1 febbraio 2010

Destra Sinistra

E’ molto difficile orientarsi nel panorama politico italiano: personalità appartenenti storicamente e culturalmente agli ambienti della destra dicono cose di “sinistra”, personalità storicamente e culturalmente appartenenti agli ambienti della sinistra operano e amministrano con scelte che potrebbero essere condivise anche da amministratori di “destra”.
Dunque bisognerebbe far chiarezza e cercare di individuare qualche, possibile, linea di confine, qualche variante imprescindibile superata la quale si è orientati o di qua o di là, chiarezza necessaria se non al voto- quante variabili incidono poi sul voto e lo sappiamo bene quando si candida l’amico della porta accanto o la persona cui dobbiamo qualcosa- sicuramente alla propria onestà intellettuale.
Determinanti a stabilire un confine sono, a mio giudizio, le decisioni sulla spesa pubblica, sulla gestione delle risorse.
Mi sembra valido e inconfutabile il concetto che quando con le risorse di tutti si agisce e si operano migliorie per pochi si è evidentemente in una politica di destra e quando con le risorse di pochi – quelli che più possono, i ricchi, i benestanti si sarebbe detto una volta- si agisce e si operano migliorie per tutti siamo, forse, in una politica di sinistra.
Se ad un prato ben tenuto di una villa privata concorriamo tutti, con le leggi, i permessi, le tasse e gli sgravi fiscali, ecco questa è una scelta di destra, se un parco pubblico riapre con le risorse di una giusta tassazione, ecco questa è una scelta di sinistra.
Non è detto poi che siano proprio gli uomini dei partiti di sinistra ad operare scelte di sinistra né che siano proprio gli uomini dei partiti di destra ad operare scelte di destra ma la linea di confine ci può aiutare ad individuare, al di là dei nomi e delle appartenenze, il vero colore politico delle azioni di cui tutti, quotidianamente, subiamo le conseguenze.
La politica di sinistra poi è apparentemente sciupona.
Essa investe sulle risorse intangibili. Investe, cioè su quelle che possono sembrare pure perdite nel presente, la coltivazione delle menti, la prosecuzione della memoria e della ricerca, infine la non rozza conservazione della propria identità, identità non solo artistica, culturale, storica e di ingegno ma anche paesaggistica – come ebbe a dire recentemente Antonio Paolucci – in una disseminazione territoriale su cui si è fondata la costruzione del Paese Italia e che da senso e significato alla nostra collocazione nel mondo.
La politica di sinistra dunque sciupa per il futuro e dunque non sciupa. Essa avverte che in un’economia globale nella quale noi siamo comparse di poco conto non potendo contare né su risorse finanziarie, né su materie prime, né su una forza lavoro competitiva, possiamo contare sul valore aggiunto della nostra preziosa tradizione, sulla cultura sedimentata della nostra storia e ci possiamo contare non solo per rilanciare circuiti turistici mappati da ristoranti, vinerie e alberghi ma per esportare il nostro patrimonio di idee nel mondo – e non solo come co.co.co. a progetto.
La politica di sinistra sciupa per tentare di garantire una soglia accettabile di salute e di benessere a tutti perché un popolo più sano mette da parte per il futuro e nel futuro continua a sperare.
Ripeto non è detto che questa politica sia agita da uomini dei partiti di sinistra, né che riguardi l’intero territorio nazionale: oramai le regioni perseguono scelte del tutto autonome nelle più importanti materie costituzionali e così può capitare che una regione garantisca farmaci e dieta gratuita per i glicemici e i neuropatici e un’altra no, che in una siano attivi corsi professionali e in un’altra no, che in una anche il più piccolo centro storico sia mantenuto e in un’altra si assista a vergognosi e drammatici abbandoni come le cronache dei giornali mostrano tutti i giorni.
E non si dica che in momenti di crisi le scelte di spesa sono inevitabilmente univoche.
Cosa spendere e per chi spendere, anche in ristrettezze economiche, resta una scelta politica: si tratta di decidere, infatti, per chi e su cosa investire.