lunedì 30 agosto 2010

Da Favole 2010

Mogli

Una volta, un po’ di tempo fa, non tanto tempo fa ma un po’ di tempo fa, il tempo che ci vuole a fare invecchiare una casa, iniziare a invecchiare una casa, quando i tubi cominciano a perdere e l’intonaco esterno a sgretolarsi, quando l’impianto elettrico non è più a norma e gli infissi non chiudono bene e il legno delle imposte si scheggia e il pavimento si allarga, cioè le fessure fra una mattonella e un’altra si allargano e in mezzo c’è uno scuro che non va via e le maniglie delle porte forse sono un po’ ossidate e la poltrona è completamente infossata e il divano smollato e il frigorifero cambiato tre o quattro volte e in quella casa sono già passate almeno tre famiglie e i figli sono diventati nonni e altri figli si affacciano forse più robusti e più lunghi e più allegri, tutto merito del latte artificiale dirà qualcuno, insomma una volta non antichissima ma abbastanza antica da scriverci una favola, una volta le badanti si chiamavano mogli.
Le mogli badavano a tutto. Innanzitutto cucivano e stiravano e lustravano le scarpe perché se uno usciva di casa con gli abiti spiegazzati e senza bottoni o con orli scuciti o federe pendenti voleva dire che in quella casa non c’era nessuno che badava a niente e dunque quella era una casa di poveracci davvero, poveracci di cure, di affetto, di sapienza e di lavoro, una casa di vagabondi e di disgraziate. Una casa senza moglie.
E le mogli badavano alla cucina. Ma non la cucina elaborata e raffinata o esotica o dietetica o salutistica. Le mogli badavano alla cucina per crescere i figli, per curare gli ammalati, per far mangiare i vecchi, quelli senza denti, senza udito, senza vista e senza appetito proprio come erano i vecchi di una volta che non si mettevano le dentiere né gli apparecchi acustici né si operavano di cataratta e non uscivano sulla sedia a rotelle e non avevano il fisiatra né le flebo dunque era un’acrobazia riuscire a farli mangiare, bere, andare di corpo, pisciare e quello era un lavoro delle badanti che si chiamavano, a quei tempi, mogli e con la loro cucina riuscivano a parare, a rinviare il più possibile l’arrivo del dottore che quando arrivava il più delle volte ammazzava. E le mogli conoscevano le monacelle, i rimedi delle monacelle e facevano bollire certe tisane, una per pisciare, una per andare di corpo, una per l’allegria, una per il sonno, una per il fegato, una per la febbre. E accuratamente le badanti- dette mogli- nascondevano al medico quello che combinavano in cucina perché la cucina era roba loro e là dentro potevano entrare solo altre mogli o future mogli o mogli in pensione, nessun uomo poteva mettere il naso.
E le mogli- badanti capivano quando era stato concepito un figlio o stava per nascere un figlio e quando stava per morire un vecchio. Non c’era bisogno del dottore, da certi segni incomprensibili ai più ma non a loro le mogli badanti capivano la vita, il suo inizio, la sua fine, le sue parentesi.
E le mogli facevano da architetto nelle case, le abbellivano, le decoravano, le intessevano, le mantenevano, le ricamavano e lavoravano a maglia. In ogni casa si sentiva il rumore del pedale, c’era sempre una poltrona vicino a una finestra, la luce giusta per il ricamo.
Le mogli – badanti una volta non venivano pagate, non avevano lo stipendio, né la liquidazione, né la pensione. Da vecchie se la dovevano cavare così, da sole, sperando che la più giovane moglie-badante si prendesse cura di loro come loro si erano curate della suocera, della mamma, della zia zitella. E poi speravano di non vivere a lungo, non troppo a lungo, perché è triste la vecchiaia quando non puoi più badare a qualcuno.

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